Laudatio by Maria Fancelli
Il 23 novembre 2010 Rita Svandrlik, Mauro Conti ed io siamo andati a Marino per compiere una missione del tutto speciale: quella di consegnare al Maestro Henze, impossibilitato a venire a Firenze, una pergamena e un breve testo in suo onore. A lui, infatti, era stato assegnato quell’anno il Premio Ardinghello, nella precedente edizione andato a Inge Feltrinelli e Klaus Wagenbach.
Il premio dal nome bizzarro di Ardinghello è un riconoscimento del Dottorato di Germanistica Studi Italo-Tedeschi dell’Università di Firenze (con il sostegno del Comune), che viene dato a personalità che hanno particolari meriti nel campo dei rapporti culturali e artistici tra Italia e Germania, con particolare riferimento al contesto della cultura toscana. Prende nome dal protagonista di un romanzo tedesco del Settecento Ardinghello e le Isole Felici (Ardinghello und die glückseligen Inseln), pubblicato nel 1787. Ne era stato autore Wilhelm Heinse, uno scrittore del classicismo avanzato, oggi sconosciuto ai più, ma al quale Hölderlin aveva non casualmente dedicato una delle sue poesie più belle e più famose Brot und Wein (Pane e vino). Il romanzo racconta le vicissitudini di un artista nell’Italia del tardo Rinascimento inaugurando in un certo senso una linea anticlassica; il nome Ardinghello, scelto proprio per questo tipo di premio, intendeva allora come oggi, spostare l’attenzione su una figura non canonica, insieme allusiva ed estraniante, del rapporto tra i tedeschi e l’Italia. Nessuno, più di Henze, che in Italia aveva la sua seconda patria e a Montepulciano con il Cantiere Internazionale dell’Arte aveva dato vita ad uno degli esperimenti artistici più rilevanti del secondo Novecento, aveva titolo per meritare quel premio.
Sapevamo tutti molto bene che, nel corso della sua vita, Hans Werner Henze aveva ricevuto una lunga serie di prestigiose onorificenze; e forse proprio per questo, avvicinandosi a Roma, sentivamo crescere in noi l’ansia e il timore dell’incontro e tutta la sproporzione tra il nostro piccolo omaggio e il cursus honorum del Maestro.
Arrivammo a Marino all’imbrunire, ma in tempo per vedere il tramonto a La Leprara e i luoghi di cui avevamo letto e sentito parlare. Di quella sera ricordo ogni particolare; ma ciò che non dimenticherò certamente sono i gesti del Maestro nel momento in cui gli abbiamo offerto il nostro dono in un angolo del suo ampio salotto quadrato. Henze ha abbandonato il tono di conversazione amichevole, si è alzato in piedi, ha ascoltato il breve messaggio dei germanisti fiorentini e le ragioni del premio; sempre in piedi, ha accettato con gioia e rivolto parole di gratitudine e di rispetto verso l’istituzione che noi rappresentavamo, imprimendo così al nostro incontro il carattere di una semplice e sobria solennità.
Rientrammo a Firenze a tarda notte con l’animo commosso, decise a percorrere fino in fondo la strada del massimo riconoscimento accademico, ovvero la laurea ad honorem. Trovammo nella collega Fiamma Nicolodi un appoggio immediato ed è stata lei, insieme al Preside Bruscagli e al Rettore a portare avanti le complesse procedure che il nostro Ministero prevede per il conferimento della laurea ad honorem; fino all’evento di oggi e alla laudatio che abbiamo appena ascoltato.
Di fronte a questa straordinaria vita e opera, sento oggi la stessa inadeguatezza che sentivo andando a Marino. Mentre il mio compito di germanista, qui e oggi, non può che essere del tutto complementare e ausiliario. Nell’impossibilità di fare anche una sintesi sommaria dei rapporti tra Henze e il campo della cultura letteraria tedesca, vorrei ricordare almeno i nomi dei principali scrittori tedeschi che hanno fornito temi, motivi e libretti: Friedrich Hölderlin, Friedrich von Kleist, Eduard Mörike, Georg Trakl, Ingeborg Bachmann, Grete Weil, Hans Magnus Enzensberger e, non ultimo, Hans Ulrich Treichel, sui quali esistono già vari e talvolta autorevoli studi. Vorrei ricordare inoltre che Henze ha avuto un rapporto precoce, costante e diretto con la letteratura, un amore radicato nelle letture giovanili proibite tra il 1942 e il 1943 (Canti di viaggio, p.47) e di quelle notturne del periodo dell’arruolamento nell’esercito (Canti di viaggio p. 65), che è diventato nel tempo anche amore per la scrittura. Il compositore Henze, infatti, è autore di una delle opere autobiografiche e memorialistiche più significative del Novecento, nonché di un grande corpus di lettere. Mi riferisco in primo luogo al diario dal titolo heiniano di Reiselieder mit böhmischen Quinten del 1996, tradotto in italiano nel 2005 con Canti di viaggio. Una vita (a cura di L. Bramani, Milano, Il Saggiatore) e in secondo luogo al carteggio con I. Bachmann Briefe einer Freundschaft (Monaco-Zurigo 2004², Piper), tradotto con il titolo Lettere da un’amicizia (a cura di Hans Höller, Torino 2008, EDR, trad. di Francesco Maione). In questi due libri è narrata, in tutta la sua ampiezza e varietà e con uno stile alto e riconoscibile, l’intera storia dei rapporti con l’Italia, con gli artisti, gli scrittori, i registi, e i librettisti italiani; dalla Morante a Moravia, da Pasolini a Visconti, da Vespignani a Sinopoli e a molti altri amici e collaboratori tra i quali mi piace ricordare il gruppo di Montepulciano nonché di Giuseppe di Leva, librettista di Pollicino. Nella casa di Marino spiccano, a testimonianza di un’amicizia due tra i maggiori quadri di Renzo Vespignani (cfr. Autori vari, Henze, a cura di E. Rostagno, Torino 1986, EDS, p.29); ma si leggono con vero piacere anche le parti dedicate a una figura collaterale al mondo musicale, come quella di Carlo Ferdinando Russo (ibidem, p. 27).
Neppure su questo vasto tema Henze, l’Italia e l’italianità , il più vicino alle motivazioni del Premio Ardinghello, posso pensare di dire oggi qualcosa di organico. Mentre rimando agli studi in merito già avviati da Franco Serpa (Henze e la cultura mediterranea in Henze 1986, op.cit. pp. 90-104) e di Ennio Speranza (Elementi mediterranei nella musica di Hans Werner Henze: Drei Tentos aus der “Kammermusik 1958” in Itinerari musicali italo-tedeschi, a cura di J. Streicher e A. Menicacci, Roma 1989, Herder Editrice, pp.115-123), vorrei indicare almeno alcuni punti che mi sembrano degni di approfondimento e di sviluppo.
Fin dai primi anni cinquanta Hans Werner Henze ha intessuto con l’Italia un rapporto che è oggettivamente unico nella storia del secolare scambio di cultura tra la Germania e il nostro paese. Esso ha le sue radici nelle comuni esperienze storiche e politiche di una generazione di scrittori e intellettuali uscita dal nazismo e dal fascismo, che nell’immediato dopoguerra si trovarono a vivere e ad operare in stretta vicinanza spazio-temporale. Un rapporto costruito e consolidato in due centri propulsivi, Ischia e Roma: l’isola di Ischia come luogo di raccolta di alcuni scrittori tedeschi dissidenti e metafora dell’isolamento e della distanza dalla realtà tedesca; la città di Roma degli anni cinquanta come eccezionale laboratorio di cultura italiana ed europea. Né è certo da trascurare l’intermezzo napoletano. Un rapporto che nasceva su un nucleo di interessi intrecciati e tesi al superamento del passato e alla rinascita culturale e politica: interessi per il teatro musicale, per il cinema, per il melodramma, per la tradizione favolistica e popolare da Gozzi a Collodi, da Ariosto a Tasso, dalla quale verrà nel 1980 Pollicino e l’esperienza del Cantiere. Bachmann descrive con parole bellissime il suo accostamento e quasi scoperta dell’opera italiana, avvenuta a fianco di Henze.
Non è esagerato dire che quello per l’Italia divenne in breve tempo un rapporto di amore totale e fusionale, che faceva propri elementi della mitografia classica e mediterranea e del secolare confronto Nord/Sud; basta leggere le splendide pagine nelle quali Henze descrive quasi la sua discesa verso la civiltà meridionale, antica e pagana, verso l’Italia come luogo di libertà e di rinnovata immaginazione estetica (cfr. Canti di viaggio, pp.130-133). Ho detto rapporto totale e fusionale, ma dovrei forse usare qualche cautela, pensando al caso di Luigi Nono e alle numerose pagine del diario (cfr. Canti di viaggio, in particolare pp.183-186) che parlano con grande discrezione di una ferita non risanata (mi verrebbe fatto di dire die Wunde Nono!) con il compositore veneziano, ferita che non era stata solo personale e privata, bensì sul piano dell’estetica musicale; e che di fatto non andava ad incidere con il rapporto sempre più stretto di Henze con la cultura italiana contemporanea.
L’elemento centrale e il motore del rapporto con l’Italia è stato, a mio parere e senz’ombra di dubbio, l’amicizia con Ingeborg Bachmann, della cui intensità è prova suprema l’uso comune dell’italiano in quasi la metà del carteggio; l’italiano che era diventato per entrambi lingua d’uso quotidiano e insieme del discorso estetico ed artistico. Questo uso dell’italiano è, a mio parere, un elemento chiave del loro rapporto con l’Italia sul quale vale la pena di riflettere e di indagare ancora: Bachmann e Henze insieme, infatti, hanno eretto un vero e proprio monumento all’italiano non come lingua veicolare, ma come strumento di pensiero, di ricerca, di costruzione formale e di un’intesa umana e politica.
E’ noto che, sia pure in misura infinitamente minore, il carteggio Bachmann-Henze è scritto anche in francese e in inglese e in quanto tale potrebbe essere rubricato nella categoria delle opere plurilingue. A suo tempo Franco Serpa vide in quel plurilinguismo una forma di compiacimento narcisistico e di complicità intellettuale che io invece tenderei a escludere; perché penso che una certa componente narcisistica fosse quasi naturale per due giovani non ancora trentenni, già proiettati su un orizzonte cosmopolita.
Di fatto, l’uso sistematico dell’italiano, durato tutto il tempo dello scambio epistolare (ovvero dal 1953 al 1959) tra due scrittori di madrelingua tedesca si impone come un esempio a mia conoscenza unico, di quel fenomeno che Gianfranco Folena ha chiamato, con rude neologismo, eteroglossia (G. Folena, Eteroglossia europea, in L’italiano in Europa, Torino 1983, Einaudi); ovvero un esempio unico dell’uso eteroglotto della lingua nel paese di quella lingua. Ma, mentre i casi studiati da Folena, riguardavano l’italiano fuori dell’Italia e scrittori come Voltaire e Mozart che, com’è noto, in italiano hanno scritto, il caso Bachmann-Henze trova la sua originalità nel fatto di essere nato e di essere cresciuto tutto in terra italiana, in un confronto fecondo, spesso alla pari, con alcuni scrittori italiani viventi. E’ stato certamente un fenomeno e uno strumento di identificazione, di proiezione e di fusione con la cultura italiana, di cui Henze registra in parte anche lo sviluppo nel tempo (per un anno tre lezioni la settimana, cfr. Canti di viaggio, p.128; “la grammatica italiana e una caraffa di vino”, p. 154). Non solo, personalmente tendo a credere che questi passaggi di lingue diverse e in particolare il passaggio tedesco-italiano praticato dalla poetessa Bachmann e dal compositore Henze in forma epistolare, sia stato anche evidente e consapevole pratica di contaminazione e di sperimentazione linguistica e artistica; Credo di poter dire, concludendo questo mio breve e imperfetto intervento, che proprio questa lingua seconda, questa lingua adottata, questo singolare e unico impasto di corrispondenza amorosa, di sforzo di conoscenza dell’Italia civile, di scambio di informazioni, di sentimenti e di riflessioni su persone, opere e cose; proprio questo singolare e unico impasto linguistico dovrebbe essere studiato nelle sue articolazione e nei suoi diversi stilemi; nei suoi errori ricorrenti soprattutto fonetici, nelle sue scelte lessicali; nella profonda diversità, anche qualitativa, tra l’italiano staccato e rapsodico di Bachmann e quello ampio e arioso di Henze; andrà studiato anche negli inserti dialettali e perfino nei telegrammi; nell’uso molto individuale dell’interpunzione; nell’attrazione per gli elementi cantati della lingua e la sua vocalità, quello Sprechgesang che gli pareva di sentire in un osteria di Frascati (Canti di viaggio, p.113).
Uno studio tanto più necessario in quanto non siamo di fronte ad carteggio familiare e spontaneo, ma ad un lungo e ragionato racconto in lettere, a un’opera di respiro letterario oltre che di alto impegno morale e intellettuale.
Ristudiare il carteggio Henze-Bachmann può parere forse un obiettivo modesto, nella cornice di evento solenne come quello odierno. Ma tornare a studiare sul piano scientifico e sulla base della ricerca attuale, quella straordinaria testimonianza linguistica e letteraria, da parte di una istituzione come l’Università di Firenze, mi sembrerebbe quasi un atto dovuto e un modo di continuare nel tempo a conoscere e a onorare degnamente un grande tedesco e un grande italiano. Che sentiamo oggi ancora vivo tra noi.
Firenze, 3 ottobre 2013, Aula de’ Battilani