Qualche anno dopo la fine della guerra, tornai a Berlino con le mie prime partiture sotto il braccio. Nel frattempo, le cose si erano chiarite, era iniziata la ricostruzione, i teatri e le orchestre suonavano ora le opere che erano state vietate durante la dittatura o che erano state scritte principalmente altrove durante questa fase.
La gente cercava di trovare la propria strada. Io cercai di prendere piede, ma non ci riuscii, ero troppo debole, potevo, sapevo troppo poco. Me ne resi conto e ripartii, ma da allora ho sempre cercato di conoscere Berlino, cioè il suo pubblico, il cui riconoscimento doveva significare per me quanto Londra per gli inglesi o Parigi per i francesi. E a volte sono stato fortunato, altre volte è andata male, allora ci ho riprovato, come un innamorato che rifiuta di essere respinto.
Più volte ho vissuto in incognito a Berlino per molti mesi, ho avuto lì amici fedeli, vecchi e giovani. Anche dopo la bipartizione, l'impulso metropolitano si sente ancora, l'energia, il ritmo, l'ambizione. Anche il dialetto è quello che solo le metropoli possono produrre. Mi sento a casa a Berlino, amo questa città, temo e soffro con lei. Non posso nascondere che a volte cerco di immaginare come le due parti della città possano un giorno riunirsi in modo del tutto naturale, evidente. Un'utopia.
Sotto una minaccia permanente, in una tensione politico-economica sempre nuova, sottoposta alle più grandi difficoltà, batte questo cuore metropolitano malconcio ma coraggioso, fatto di tre milioni di cuori metropolitani coraggiosi, di tre milioni di individui che reclamano il loro diritto a una vita realizzata, alla pace, a un futuro felice.
(Prima stampata in: Eberhard Diepgen (ed.): 750 Jahre Berlin. Anmerkungen, Erinnerungen,Betrachtungen, Berlin 1987, p 132 - 134). Traduzione di M. Kerstan)